CONTRADDIZIONI IN ATTO

1976-1980

 

Nulla è più falso di ciò che si offre come più vero del vero.

Su questa equazione logica gioca oggi la sua rischiosa partita molta giovane pittura contemporanea, specie europea, che ha finito di credere alla «verità» ottocentesca dell'immagine, eppure riconosce nell'immagine l'unico riferimento possibile per penetrare oltre il suo guscio; nel mondo di una realtà che è sentita (rovesciando Kant) come unità di razionale ed irrazionale e dunque contraddizione in atto.

(È appena il caso di ricordare, se non per dovere di riferimento ad un contesto storico, che l'avventura si muove fra i capi opposti d'un filo che corre, almeno, dalla Nuova Oggettività tedesca degli anni venti all'Iperrealismo degli anni Settanta, con molti incroci incontri ed innesti, nel frattempo).

Per entrare nel mistero della contraddizione, l'immagine deve essere lucida, anzi trans-lucida: deve cioè aver esaurito ogni spessore ed irregolarità che impedisca di cogliere, sotto lo spettacolo (da spedare, guardare qualcosa che richiama troppo insistentemente e continuativamente lo sguardo), quel brulicante mistero del reale.

Deve essere, insomma, come lo specchio di Alice.

Carlo Amadori è uno dei giovani pittori italiani impegnato in questo problema. Lo fa, come suggerisce Franco Solmi, cercando di giocare su «naturalissime ed impossibili polivalenze». Esse sono sostanzialmente (nelle opere degli anni 73-75) quelle che sorgono dal contrasto impassibile fra personaggi in vesti/m de siede, primo Novecento (crinoline, cappelli a nastro, ombrellini parasole, mantelle e chignon, frac e tube, canottiere da bagno...) e i luoghi che frequentano: stazioni d'aeroporto, dove salgono sui jet, passeggiano sulle piste, scrutano i voli di De 10 e jumbo nel cielo.

Ma in questa fase l'assurdo viene allo scoperto, ha una sua estroversione spettacolare, appunto, Contenuta e fermata solo dalla freddezza di tenuta della pittura (che deve «assomigliare» alla fotografia proprio per parafrasarne l'esattezza macchinistica); da quella luce che taglia implacabili ombre nette, dai colori gelatinosi; dalla rarefazione metafisica degli spazi che si fanno, così, «territorio magico». Deserto di nessuno entro il quale tutto può accadere, perché nulla è cambiato (come suggerisce il titolo di un quadro).

Dal '76, Amadori prova ad inoltrarsi nel profondo della contraddizione: non più lo scarto che si determina fra due o più immagini, la crinolina e il jet (siamo ancora, tutto sommato, nell'area teorizzata da Lantreamont). Non più la differenza, ma la ripetizione. Nascono così i quadri ispirati alle ville di Stresa. Le vetrate, le balconate, le colonne con capitelli, i fregi, le pensiline, i belvedere e le scalinate dell'architettura umbertina-liberty incombono su pettinati prati verdi all'inglese, dove un distintissimo manager di mezza età riposa su una sedia da giardino, lo sguardo fisso lontano, un rotocalco o un quotidiano abbandonato sulle ginocchia o sul bracciolo; solitario o con un segretario deferente in attesa di ordini che forse non verranno mai.

Nulla, a prima vista, c'è di assurdo o sconcertante in questa scena. Tutto è nitido e tutto è fermo, non c'è trucco e non c'è inganno. Eppure lo spettatore sente - immaginiamo - una sottile inquietudine, il mistero disagevole che sale da quei recessi verdi di pini, di palme, di cipressi, di cespugli (come il parco nel Blow-up di Antonioni). Quella elegante e decadente scenografìa è sospetta come una trappola di schermi e di nascondigli, dietro i tendaggi, le vetrate, le bianche statue.

E chi è questo personaggio da cui emana il «fascino discreto della borghesia», un signore di oggi, certo (come suggerisce, discretamente datando il presente, il giornale che ha letto o che leggerà); ma che se ne sta lì come raggelato o di cera, con la piega dei pantaloni troppo perfetta, in un ambiente che è lo stesso di quaranta o cinquanta o quasi cento anni fa?  

E insomma: mentre nei quadri precedenti l'improbabile o l'assurdo venivano proposti come probabile o «naturale», qui la situazione è capovolta: è il probabile e il «naturale» che si connota, suo malgrado, come improbabile o misterioso.

Perché? Ancora una volta per via di pittura, ovviamente. Ancora una volta Amadori deve far scorrere l'immagine sul filo di una nettezza che faccia risuonare il falso oltre l'apparente «fedeltà» riproduttiva (e se prima il riferimento era alla fotografia, qui soccorre la pellicola cinematografica, con certa sua maggiore mollezza e brillantezza del colore).

 Si determina dunque un'inquietudine, che è disagio d'un tempo stagnante fra un passato indefinito e un presente fermato, e d'una situazione sospesa.

E questo già potrebbe bastare per quello che stiamo per osservare; ma la chiave del mistero si offre angosciosamente se ci accorgiamo che quel distinto signore, quel volto sempre eguale di uomo d'affari è il volto del pittore stesso di Amadori, ma invecchiato: dipinto come potrebbe essere, più o meno, fra una decina d'anni (ora ne ha 35). Ma allora, così, l'inquietudine si proietta nel futuro, diventa presagio.

Presagio di che? Non di una scena e di un mondo al quale possiamo rifarci per vie esteme, che non ci appartiene. Non si tratta di un elegante esercizio salottiero sul destino della borghesia, magari sull'orlo di dissolversi - come nell'Oscuro oggetto del desiderio di Bunuel - in un'esplosione.

Ci siamo coinvolti noi, autobiograficamente: se questo è un apologo sul Potere, è anche un apologo sull'Esistere. Ecco perché parlavo di ripetizione: qui c'è un appiattimento, una tautologia, la fine dello scarto; l'identità e non la contraddizione. Dunque la Morte, non la Vita.

Il dubbio proposto da Amadori è agghiacciante: nulla cambia, perché nulla può cambiare? L'esercizio della memoria è già tirocinio del futuro? Siamo, infine, come i personaggi di Casares, nell'invenzione di Morel, immagini registrate di morti, loro doppio?

«II capitalismo ha compiuto la sua impresa: tutto è stato immagazzinato, registrato, capitalizzato, tutto è stato contabilizzato nel grande Museo delle immagini e il tempo stesso, tutto intero, investito, addizionato, sommato, può sboccare soltanto sull'eterna ripetizione di se stesso» (Jean Clair, L'ultima macchina).

 

Pietro Marino

Bari, febbraio 1978

 

 

OPERE

TORNA ALLA PAGINA PRECEDENTE