SOMNIUM OCCIDENTALE

1980-1985

 

Anche se il mondo si muta rapido, come orma di nuvola, ogni cosa compiuta ricade in grembo all'antica.

Rainer Maria Riike

 

Credo che la nota dominante del lavoro di Carlo Amadori sia in quel nomadismo che già nel '73 aveva fatto prevedere a Franco Solmi «esiti non immoti», e attraverso cui la pittura finisce per occupare progressivamente, indugiandovi fino alla completa assimilazione, diversi territori culturali.

Dunque, un lavoro in progress sulla sintonia del conoscibile, quando si escluda dal termine ogni connotazione di analisi sui segni del fare pittorico, secondo quella che è stata l'ortodossia concettuale degli anni settanta. Perché Amadori ha operato sempre «dentro» la pittura. In lui la tenuta dell'immagine è cosa antica, addirittura atavica per sua stessa ammissione.

Di qui quel costante procedere in parallelo alla realtà, di cui l'immagine diventa il perverso «doppio»: si pensi ai cicli degli autogrill, degli aeroporti e di Stresa, dove anche il vero, appunto per colmo di specularità, si faceva nomade e transfuga fino a toccare, come in molta pittura italiana improntata al realismo radicale di quegli anni, la cifra dell'altro e dell'assurdo.

Ma già allora, al di là di una se pur originale osservanza allo spirito del tempo, andava definendosi nell'opera di Amadori una sorta di mistica dell'irreale, dell'inautentico, della bugia dichiarata; insieme alla crescita di un «sentimento» della storia che indaga il quotidiano esautorandolo di tutte le sue certezze.

Quotidiano che appare ibernato in tableaux vivants dove il dato autobiografico affiora inevitabile con i simboli di un'opulenza ottusa e sinistra. La stessa equivalenza tra figura umana e sfondo architettonico, l'una e l'altro come registrati dal più imparziale degli obiettivi, riconduceva l'immagine al denominatore dello straniamento e dell'improbabile.

Ma d'altra parte la lucida ricognizione delle facciate di ville palladiane e di alberghi umbertini indicava l'insorgere del tempo e di una memoria ormai culturale e non più privata.

Attraverso l'esercizio di uno stile che in forme auliche o mondane ripropone suggestioni classiche, Amadori ha così trovato la traccia da seguire in questo ennesimo territorio di conquista: un percorso già latente e che attendeva solo la sua proustiana pietra sconnessa per rivelarsi con tutte le sue sollecitazioni intellettuali.

L'antefatto mi sembra indispensabile alla comprensione di una ricerca che altrimenti potrebbe apparire arbitraria nelle svolte o, peggio ancora, frettolosamente convertita a certe istanze «inattuali» della pittura contemporanea.

A questo somnium Amadori è giunto perché doveva arrivarci, per logica e necessità. Tutto il suo lavoro, ripeto, si è svolto sulla disamina per metafore dei segni del nostro tempo; e quando quella disamina è parsa esaurirsi per esaurimento della spinta ideologica che la giustificava, la rinascita è avvenuta inevitabilmente per via sentimentale, attraverso simboli e religioni da ricercare fuori del vissuto.

Ed ecco che il momento mitico che rivela il pensiero dell'Occidente, l'archetipo culturale classico, scatta come termine emblematico di quella rinascita, e l'artista per diventare profeta si scopre archeologo.

Il passato che ritoma nei frammenti di capitello e nelle statue da giardino - a loro volta «ritorni» di altre stagioni della civiltà umana che avevano guardato all'antico - sembrerebbe non escludere un'inclinazione neoromantica e contemplativa di fronte alle ritrovate radici.

Naturalmente Amadori non si fa garante di nuove età dell'oro ne di nuovi Parnasi.

La sua nostalgia non può competere con la visione del Rinascimento e del Neoclassicismo che per produrre grandezza avevano dovuto interrogare quella cultura grandissima; ne gli impedisce di registrare ancora una volta un inganno, un'interpolazione verificata tra l'immagine e il suo referente: l'intatto e divino respiro dell'Ellade mediato dalla riesumazione della storia, quando addirittura non replicato nella copia accademica o avvilito nel falso.

Il delirio erudito di Amadori denota così una disperazione e un'impotenza non diverse da quelle che nella pittura di ieri avevano impedito lo smascheramento del quotidiano. Ora è il passato a negarsi, e proprio attraverso i suoi stessi eidola.

L'arte produce mistificazioni perché è in sé mistificazione. Il processo diventa squisitamente metonimico, nel momento in cui l'artista intercetta l'anacronismo persistente delle tracce culturali dell'uomo sotto qualsiasi congiuntura storica.

Ma è chiaro che pur non suggerendo modelli di comportamento estetico, Amadori intende riproporre la fascinazione di una misura che, per quanto snaturata, resta quella dell'origine e dell'etnos. Una misura che come abbiamo visto non potrà essere più quella aurea, ne quella di certo frigido neoaccademismo che oggi rivisita il museo solo perché l'avanguardia avrebbe sottratto all'artista il suo futuro. L'ottica di Amadori non è ne moralistica ne mimetica, ma, come rivela con esattezza Marilena Pasquali, è «visione appassionata». Visione che è anche antica di futuro, per proporsi come episodio riflesso e riflessivo di quella no man's land entro cui è sconfinata l'arte dei nostri giorni.

Come dire che tra le tante concesse all'artista, la passione della mente è ancora la privilegiata: l'intrigo visivo rimanda sempre ad una distanza, l'ipotesi di un rapporto ad un silenzio indifferente. L'arricciarsi dell'acanto, il profilo perfetto della modanatura, lo spiegarsi sereno del panneggio non sanno trasmettere più pensiero, ma solo la loro allucinata presenza di immagini de-significate per eccesso di significato. Pinacoteca inutile, il giardino occidentale di Amadori racchiude fantasmi sublimi e sentinelle dallo sguardo di pietra che possono guardare solo se stesse.

 

Giuliano Serafini

Bologna, marzo 1985

 

OPERE

 

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