OGGETTI DEL PRESENTE

 

Probabilmente il lavoro del giovane pittore bolognese Carlo Amadori troverà qualche riscontro «in situazione» nel momento in cui viene presentato a Torino, città ove è stata concepita e realizzata - sulla scia di un impegno straordinariamente presente sui problemi dell'arte d'oggi - quella mostra «Combattimento per una immagine» che ha fatto il punto, nel bene e nel male, sui rapporti intercorsi e che ancora intercorrono fra i modi, tutt'altro che distinguibili, di produzione e di riproduzione dell'immagine. Ve ne erano tanti, ma il maggior merito della mostra curata da Luigi Carluccio e da Daniela Palazzoli - almeno ai fini del discorso che qui mi interessa - mi sembra proprio quello di avere sottolineato e insieme cancellato l'antitesi (di divulgata tradizione) fra fotografia e pittura, instaurando fra i due momenti una feconda dialettica e, in sostanza, recuperando all'immagine tout court il suo significato di finzione che s'invera e di verità che si carica di infingimenti fino a diluirsi in quella improbabile probabilità che del processo dialettico è propria, laddove questo non s'irrigidisca nel rigor mortis della sintesi definitoria. Ora, la pittura di Carlo Amadori nasce in un ambito di cultura ove i problemi dell'immagine aperta all'urto della realtà più banalizzante, ma nello stesso tempo capace di resistere anche nella sua pur inquinata metafisicità, sono stati oggetto di indagine e di dibattiti non occasionali. Di questo clima essa porta il segno e non sarà difficile reperirne gli antecedenti immediati nel lavoro, ad esempio, dei bolognesi Leonardo Cremonini e Dino Boschi, o dei romani Franco Mulas e Piero Guccione, specialmente per quanto riguarda i lavori dell'ultimo periodo. Di suo Amadori ci mette un maggior distacco, una indifferenza paurosa per la sorte dei suoi personaggi, che si direbbe assolutamente non partecipata e tutt'altro che sofferta. Ebbi già occasione di scrivere a proposito di queste immagini che tutto è visto come attraverso uno sguardo spento, più che allucinato, che coglie come fatti ineluttabili e senza possibile alternativa i riti del quotidiano, coi suoi cimiteri di oggetti, persone o automobili non importa, con le sue superbie e i suoi fragori tecnologici che misurano tutto, dalla pista dell'aeroportoall'elevarsi d'architetture da autogrill, dal dividersi della luce e dell'ombra fino allo snodarsi di un gioco triste e ordinalissimo di bambini sulla strada. In verità la parola «triste» che ho appena usata non ha senso se non intesa come risultato di una «riflessione» del tutto estema all'opera: per loro conto questi personaggi non sono ne tristi ne lieti, ne hanno avuto in sorte bontà o cattiveria. Sono semplicemente oggetti del presente, senza passato e senza futuro possibili: oggetti biologici, appunto, o copie conformi «originali» solo in quanto riprodotte e riproducibili all'infinito. È evidente che a questo punto - e proprio per l'assoluta mancanza di autonomia temporale e spaziale dei «personaggi» a confronto, poniamo, della scaletta di un Jet o della targa di una automobile qualsiasi - il mondo di Amadori ci appare immoto, ovvio e incredibile quanto quello degli iperrealisti di più stretta osservanza del Nord America. E l'esito scontato di una ricerca disperante prima e disperata poi; una ricerca a cui l'arte d'immagine, se non trova approdi in un individualismo in qualche modo orgoglioso di sé, giunge per inferiore dannazione: incontrandosi con quella che, non a caso contemporaneamente, si è sviluppata nel paese ove la «scelta di civiltà» della borghesia neocapitalistica ha prodotto il tipo più perfezionato di eremita di massa.

Franco Solmi

Torino, dicembre 1973

 

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