IMMAGINI AL LIMITE DELL'OVVIO QUOTIDIANO

 

Vanni Bramanti, presentando in questa stessa sede una personale di Natale Guido Frabboni - che con Carlo Amadori, Claudio Mariani e Ugo Sergi fa parte il gruppo degli artisti dello studio «immagini alternative» - rilevava con tutta proprietà alcuni momenti di scompenso - del resto inevitabili quando si da vita ad iniziative di questo genere - all'interno di un collettivo che si pone, appunto, il compito di essere «alternativo» rispetto ad una situazione data come esistente e conosciuta, mentre a me sembra tutt'altro che definibile se non nei termini di una genericità assai pericolosa. Io stesso ho espresso in qualche occasione simili dubbi, forse provocato a farlo da dichiarazioni tanto drastiche da apparire per forza disarmate e purtroppo non disarmanti. Mi sembra che una alternativa al discorso sull'immagine, che a Bologna si è fatto in modo abbastanza approfondito ma sempre dialettico, possa aversi soltanto nel riconoscimento dell'ambiguità - e quindi della problematicità del discorso stesso, e quindi in tutt'altro modo che opponendo definizione a definizione, dogmatismo a dogmatismo. Questi son metodi propri alle mistiche dell'avanguardismo scolastico che taglian la storia a loro misura, con una cecità ed una malafede che spaventerebbero se non se ne conoscessero fino in fondo le non nobilissime motivazioni. Voglio dire che se v'è una posizione verso la quale proporre un discorso di alternativa, non è quella dell'immagine - sempre aperta al metodo problematico - ma l'altra, dell'accademismo di posizione. In questo senso, io credo, debbono leggersi le parole con le quali Vanni Bramanti invitava a censire avversari e probabili alleati se si vuole davvero dar battaglia con qualche speranza. Degli avversari abbiamo detto (sono i realisti di ogni estrazione, dal realismo del comportamento capitalista, con le ovvie venature nazifasciste, al risorgente neo-realismo in cui si cerca di intrappolare e vanificare il discorso sull'immagine); ora va chiarito che gli alleati possibili sono coloro che la battaglia la conducono da tempo avendone anche sostenuto il peso maggiore, aprendo in qualche modo la strada alla più parte degli artisti del collettivo e, certamente, a un artista come Carlo Amadori, pittore di non lunghissimo tragitto ma in pochi anni giunto a risultati che io ritengo di vero rilievo. L'alternativa che i suoi dipinti propongono la si coglie immediatamente: vi si trova infatti il rifiuto di ogni atteggiamento ludico, senza che per questo vi sia il trionfalismo fra il presuntuoso e il musone che contraddistingue il populismo contemporaneo. Amadori, lo si comprende subito, ha avvertito assai meno degli artisti della generazione che ha preceduto la sua, il trauma di una scelta fra atteggiamento dogmatico e atteggiamento dialettico, ed è questa forse la ragione della «impassibilità» in cui vivono sospese le sue opere, una impassibilità che però non segna un distacco dal quotidiano, ma che anzi sceglie il momento più ovvio e banale della cronaca per cui e in cui giustificarsi e costruirsi. Mi sembrò giusto scrivere, in occasione di una sua mostra degli inizi, - quindi assai meno ricca e articolata di questa - che il giovane artista bolognese aveva intuito quello che è uno dei motivi fondamentali della poetica d'immagine che la diversifica dalla disarticolata fenomenologia della neo-figurazione come da ogni credo oggettivistico: la coscienza di un appiattimento dei valori, tipico del mondo borghese, per cui il Valore si banalizza e il Banale, momento del reale quotidiano, assurge a Valore. Perciò ogni possibile Vero si trasforma nel Falso, e viceversa, senza che l'uno annulli l'altro. Non quindi, come da altre parti s'è detto, il Falso più vero del Vero, ma una inestricabile compresenza che genera, appunto, l'ambiguità di cui il discorso dell'immagine si fa carico. La dimensione del falso-vero, dell'immagine che è se stessa in quanto è palesemente «altra», e la coscienza del quotidiano irreale non possono essere che di uno sguardo allucinato, che vede e non vede, che si allontana dal proprio oggetto nel momento stesso in cui più vi aderisce. Mi si perdonerà l'autocitazione, del resto scritta proprio a proposito dell'artista che ha raccolto qui il frutto di un lavoro assai proficuo e intensamente condotto. Ora lo sguardo di Amadori si è allargato a situazioni più complesse, a un paesaggio che, pur condizionato dalla macchina, si infittisce di motivi d'ambiente ove la presenza umana - sempre avvertita come riconoscibile fantasma dell'oggi più ovvio - si snoda attraverso azioni che, anziché liberarla, sembrano coinvolgerla ancor più nel meccanismo delle strutture di una architettura urbana almeno desolante. Non v'è differenza fra l'accavallarsi di rottami nel cimitero delle automobili e il gioco triste e ordina lissimo dei bambini sulla strada, ne il passare di sagome umane sulla lunga scala dell'autogrill spezza il gelo del cemento e dell'asfalto. Tutto è visto come attraverso uno sguardo spento, più che allucinato, ed è forse qui che Amadori potrebbe intervenire a dar cattiveria al discorso, a rompere in qualche modo - con vibrazioni sotterranee - questi equilibri stupiti ove il tema dell'assenza prevarica su quello della presenza, rischiando così di risolvere il processo dialettico di vero e falso, di metafisica e quotidianeità, di realismo-irrealismo a favore di uno dei due momenti. Ma non v'è dubbio che questo giovane artista tende - e con chiarezza - proprio a esiti non immoti, e quanto si è detto sul dilatarsi del personaggio «uomo» (e sia pure nelle dimensioni della copia conforme o dell'oggetto biologico) negli ultimi dipinti va letto proprio nel senso dell'assunzione da parte di Amadori di un arco più dilatato, e quindi più problematico, in cui costruire la «sua» poetica dell'immagine. Non «alternativa», penso, a quella di un Boschi o di un Mulas (per non citare che un paio di pittori presenti a Bologna che certamente Amadori non ha ignorato) ma capace di testimoniare la legittimità di un apporto individuale nell'ambito di un'area di lavoro che è comune a tanti artisti del nostro paese.

Franco Solmi

Bologna, marzo 1973

 

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