IL TEMPO DELL'IMMAGINE

1970-1974

 

Vi sono momenti in cui un ambiente culturale ove il dibattito si sia svolto con sufficiente apertura di tendenza teorica trovi riscontro concreto nelle opere non più di questo o di quell'artista, ma di un gruppo.

Si potrà allora parlare, con qualche ragione, di «area culturale» in cui confluiscono sia le esperienze di artisti già affermati, sia di quei giovani che in essi vedono le premesse di un lavoro che interessa da vicino la loro autonoma ricerca.

A Bologna un discorso siffatto sembra valido riguardo a pittori e scultori che han scelto la dimensione di una immagine svincolata, e polemicamente svincolata, dal logoro e incosciente vaniloquio della neo-figurazione, non meno che da quello di una vanguardia che non può ormai giustificarsi neppure a livello sperimentale.

Essi ricercano una nuova limpidità dell'immagine, non più intesa come riproduzione di qualche elemento figurale della realtà, ma come falsa risposta (risposta estetica) al falsificato «reale» che il sistema dei rapporti sociali ci impone quotidianamente.

Sottolineo questa parola perché gli artisti a cui mi iferisco non lavorano su simboli o mitologie esoteriche ma raccolgono nel lucido distacco delle loro opere tutti gli elementi, anche i più minuti, deìVimagerie del nostro tempo, senza distorcerli in contorsioni espressionistiche, ma anche senza cercarne una sublimazione nel «Bello ideale» nei rapporti straniti della tradizione surrealistica.

E neppure si riconoscono nella disarticolata fenomenologia che caratterizza il momento lombardo della neo-figurazione, ove il pluralismo delle verità tende a farsi verità esso stesso, verità estetica, appunto.

La dimensione del falso-vero, dell'immagine che è se stessa in quanto è palesemente «altra», e la coscienza del quotidiano irreale non può essere colta che da uno sguardo allucinato, che vede e non vede, che s'allontana dal proprio oggetto nel momento stesso in cui più vi aderisce.

Nessuno dei momenti opposti della contraddizione può essere lasciato prevalere; la falsa immagine della violenza, o dell'automobile, si caricano di quella verità «oggettiva» che viene costantemente divulgata attraverso gli strumenti massificanti della comunicazione.

Artisti come Carlo Amadori si impegnano nel discorso dell'immagine non per improvvisa folgorazione, ma per scelta che a me appare assai meditata.

Questo giovane che s'è formato in un ambiente culturale di provincia quale è quello ravennate, venuto a contatto con una situazione bolognese ove la presenza di artisti come Dino Boschi e Leonardo Cremonini è stata determinante per la creazione di quel particolarissimo modo di «fare immagini» che si va imponendo in Italia e in altri paesi d'Europa, sembra aver scelto decisamente in questi due pittori gli antecedenti culturali del suo lavoro.

Così egli, come altri giovani bolognesi che s'affacciano con sempre maggiore autorità alla ribalta della vicenda artistica cittadina, s'è portato in «situazione» dopo un lavoro duro e difficile del quale Valerio Grimaldi ha già dato chiara testimonianza critica.

A lui si deve l'aver colto una delle caratteristiche di questa pittura implacabilmente «urbana»: la non azione che si sviluppa nell'opera.

Il quadro di Amadori, infatti, procede verso una fìssità del movimento che via via si accentua quanto più l'artista pare voglia inserirsi nella dinamica di cui l'automobile è il simbolo divulgato.

Ciò che risulta da questo convergere di segni dinamici in un linguaggio d'immagine immobile è appunto la contraddizione di cui ho prima parlato, alla quale Amadori da forma di consapevole «finzione estetica».

In questo senso si può convenire con Grimaldi quando scrive che in questo giovane l'automobile, il «mostro» della vita moderna non si materializza in incubo, ma si fa realtà, ossessionante, al lucinatoria proprio perché lineare e incontrovertibile.

La mostruosità della macchina-simbolo, e dell'ambiente che per essa si è creato, sta tutta nel fatto che in questo oggetto o in questo ambiente non v'è proprio nulla di mostruoso. Essi sono parte della realtà, sono anzi la realtà stessa, vista al limite della più banale convenzione, quindi momenti della naturalezza societaria e del paesaggio ovvio e disumanizzante in cui vivono e agiscono, accanto agli oggetti dell'industria, anche gli oggetti biologici che l'organizzazione sociale sta costruendo, per copia conforme, a sua immagine e somiglianzà.

Franco Solmi

Bologna, novembre 1971

 

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