ESSERE E TEMPO

1990-1997

 

Solo Fidia ha mostrato

•ciò che Omero aveva visto,

Così sopra l'Acropoli

il cielo si è aperto

e ne sono discesi gli dèi...

 

 

Prefazione

 

Sembrerebbe l'esatto contrario di quel che appare: il «classico», nelle opere di Carlo Amadori, non è l'elemento equilibratore, ciò che pacifica e rilancia ogni tensione nella quiete di una superiore contemplazione, bensì il dato inatteso e inquietante, il richiamo a un ordine talmente diverso, e in pari tempo così noto, da provocare uno smarrimento o, ancor più, l'impressione di una stretta ineluttabile.

L'aveva già notato Enrico Crispolti, che nel Carpe Diem del 1988 coglieva «una sorta di spostamento nell'insolito» o «di sospensione», «il senso di qualcosa come un'attesa tragica». Ma il tragico, si sa, è una categoria del classico - il suo specchio oscuro, per così dire. E nei lavori di Amadori esso è evocato non tanto dalla inconciliabilità degli universi che vi appaiono - una natura troppo razionale per poter essere romantica e troppo romantica per non svaporare nel sogno, che sembra fare da comice, da varco, da contrappunto o da opposizione agli enigmatici miti di marmo - quanto dal loro ciclico inseguirsi.

C'è, in queste tele, una circolarità che può rivelarsi solo all'abbandono estetico, e che rammenta il terribile tornare delle cose su se stesse cui alluse Lucrezio («Non ciò che sembra perire, dunque, perisce del tutto / perché rifa la natura cosa da cosa...»): una circolarltà dell'essere e della storia, che attende che tutto sia finito perché tutto ricominci, non allo stesso modo, ma sul filo di un'oscillante similitudine. Così lo sguardo che scruta queste tele è costretto a muovere dalla figura allo sfondo, dal mito alla realtà, dal vero alla finzione, dalla placidità dell'oggetto al delirio del soggetto, con la consapevolezza di non potersi mai arrestare, giacché ogni punto d'arrivo rinvia a quello di partenza. Ma ogni ripresa è segnata da uno scarto, spesso impercettibile, il quale fa sì che il rispecchiamento dei due poli non sia mai identico. E da questo scarto nascono appunto lo spostamento, la sospensione, l'attesa che danno alle tele di Amadori il carattere inquieto e fascinoso che le contraddistingue.

 

                                                                                                                                Maurizio Vitto

 

Verona, maggio 1992

 

 

Anche se non amo ripetermi con riflessioni scontate o autocitarmi, se non in casi di necessità, ai fini della chiarezza del mio dire mi sia consentito un breve riepilogo su alcuni fatti e questioni che riguardano Carlo Amadori, pittore, anche perché sono stato preceduto da altri colleghi, molto qualificati e attenti, tra gli altri per esempio: Marilena Pasquali (1981), Giuliano Serafini (1985), Enrico Crispolti (1988), che hanno scritto saggi di notevole interesse critico. Tutto questo dimostra che Carlo Amadori è artista di notevoli qualità, che persegue con somma coerenza un suo proprio linguaggio che trae delle concomitanze «contemporanee» dai mitici mondi della «classicità» che, come è noto, ha attraversato diversi periodi della storia dell'arte e in epoche differenti risalendo da Fiatone (428-347 a.C.) che aveva prospettato gl'ideali del «bello» e del «giusto» con frequenti riferimenti alle arti figurative che tuttavia susseguentemente rifiutò. Tuttavia Aristotele, che dopo Fiatone fu il filosofo più grande del mondo antico e di straordinaria cultura enciclopedica (384-322 a.C.) riprese il problema, anche se più da un punto di vista etico che estetico. Nel nostro Rinascimento la parola «classicus» non si trova mai impiegata in quanto, al suo posto, si parlava di età dell'oro, di perfezione delle forme, di prospettiva matematica, di supremo grado di bellezza raggiunto dagli artisti, concordando con la classicità del bello nella pittura e nella plastica.

Tale rimase il concetto di classicismo sino al XVIII Secolo, vale a dire con l'apparire dello storicismo e soprattutto del Winckelmann che tentò per primo di ripartire in gruppi il patrimonio artistico del passato, concludendo che solo l'arte greca e non la romana, era veramente classica. In definitiva noi concordiamo con Ernst Langlotz che afferma non esistere un classico in sé, ma che ogni epoca che abbia avuto importanza per la storia dello spirito umano: «...si trova ad aver assegnato il compito di compiere una parentesi selettiva nel nostro passato e di definire classico ciò che nel proprio tempo può essere considerato produttivo in senso goethiano...». E comunque significativo che all'incirca tra la metà del secolo XVIII e i  primi decenni del XIX si ritrova il termine di «Neoclassico» per definire un ben definito movimento di stile e di gusto europeo. Le forze spirituali della storia europea erano allora basate su tré pilastri: il mito dell'antico, il dogma cristiano e lo spirito libero. Questa era dunque la verità del Settecento che venne a sua volta confutata da Jacob Burckhardt, quando avendo egli esaminato i meccanismi che portano gli uomini ad agire con sventatezza, gli uni contro gli altri, gli facevano concludere le sue amare riflessioni con questo pensiero: «È il male che muove la storia»; un postulato pessimistico che tuttavia era in linea con la visione dei «romantici» e, assai più vicina al loro realismo, di quanto lo furono gl'illuministi del secolo precedente. Le opere di Carlo Amadori che siamo lieti di presentare in questa occasione e che più avanti noi esamineremo brevemente in una specie di percorso ideale cronologico, sono tutte riassunte entro i confini della tematica «ESSERE E TEMPO», due elementi concettuali molto insistiti e sui quali il nostro artista spesso ritorna con i suoi soggetti, in quanto «Essere» fa parte dell'identità dell'uomo e quindi della sua interezza, il «Tempo» invece è legato ai grandi misteri ambigui, metafisici e filosofici dell'esistenza, comunemente vissuti e rappresentati in noi umani dalla separazione tra «La notte e il giorno» che in passato, 1979, fu il tema di un quadro giocato sul bianco e sul nero e che richiamava lo scorrere del tempo alludendo ai due estremi: «S'addormenta la notte, si leva il giorno, il giorno verrà, la notte sopravviverà». Lo scorrere continuo del tempo è un enigma assoluto quanto strano per l'ordine del creato.

Sono infatti enormi le difficoltà che possono aiutarci nel definirlo compiutamente e possono aiutarci solo gli aspetti relativi con l'adeguatezza di norme concordate per misurare un fenomeno che a noi si presenta come l'ordito d'ogni mutamento osservabile o percepibile fornendo un passaggio alla riflessione introspettiva e alla natura sperimentale della realtà naturale. Che cos'è l'intima natura del tempo? Non è forse vero che la misura di un qualunque fenomeno o anche di qualsiasi oggetto, non esaurisce e non vuole nemmeno esaurire tutte le possibili realtà di quei fenomeni e di quegli oggetti? Per sommi capi ricordiamo, per esempio, che gli astronomi danno al tempo tante diverse definizioni. C'è infatti: un tempo sideralè, un tempo solare, un tempo legale, un tempo medio. Nella vita d'ogni giorno noi usiamo il tempo legale che venne fissato in Francia (a partire dal 1911) in rapporto al fuso orario riferito al meridiano di Greenwich e che suddivide in ventiquattro ore l'insieme d'un giorno e d'una notte, anche se noi uomini siamo a nostra volta degli orologi con le nostre continue pulsazioni - immersi a nostra volta in un universo composto da tanti orologi diversi e quindi misuranti tempi tra loro differenti.

Perché ogni opera per avere un rapporto con la nostra conoscenza, un nesso con la posterità, deve avere un tempo e dev'essere vista al momento giusto? Infatti solo al momento giusto a noi è possibile percepirla nell'interezza dei suoi significati che possono essere singolari o molteplici, chiaramente leggibili o solamente interpretabili con le nostre intuizioni. A questo proposito e molto brevemente è noto che Carlo Amadori è il fautore ed il capo progetto della fortunata manifestazione «Abitare il Tempo», che è qui rappresentata in questa mostra da due soggetti, del 1990 e del 1991, legati a un unico tema «Progetto e ingresso trionfale» atti a dimostrare il contatto stabilito con la poeticità dell'abitare d'oggi, sia con la qualità di diverse tipologie d'oggetti, sia con la pregnanza di un nuovo eclettismo o eclettismo consapevole, che bene si sposa con il design e l'architettura.

Osservando i dipinti di Carlo Amadori si può notare che sono disegnati con rara maestria scenografica e con l'evidenza d'una falsa prospettiva non scientifica, mentre invece sono quasi sempre illuminati da una luce fredda che crea atmosfere lunari anche in pieno giorno, assai particolari e rese da lui ancora più espressive dalla mancanza d'un chiaroscuro di genere accademico che, sorprendentemente, porta all'interno d'una sua «classicità concettuale», più che formale, in quanto assorta nel passato storico e, nel contempo, immersa nella immutabilità di un presente, a suo modo raccontato come esistente, quasi del tutto naturalistico ed oggettivo, che tuttavia il pittore rivela al pubblico con le sue capacità creative e con l'atemporalità dei suoi soggetti singolari, descrittivi e resi con una lucidità spaesante.

Con queste figurazioni, davvero suasive, l'artista riesce a comunicarci con l'appropriazione tipica delle immagini, un suo mondo sorprendentemente fantastico, alogico, inquietante, travestito di normale naturalità, quasi a voler ricercare con propri parametri critici le evidenti contraddizioni della realtà esistenziale, che è sempre ambigua, specialmente quella dei nostri giorni. Egli risolve questa sua particolare ricerca metaforica nell'alveo di un «neoclassicismo», che vuole a suo modo rappresentare le scene d'una vita sognata, suggerita all'autore dalla libera ispirazione pervasa interamente dall'idea armoniosa della bellezza e, nel contempo, contrastata dalla misteriosa consapevolezza dei dati negativi emergenti dalla precarietà dei nostri giorni affannosi, dove noi tutti siamo testimoni, fautori e vittime, interpreti di una oscura premonizione fluttuante e segnalante l'avvicinamento, quasi irreversibile, d'una prossima tragica conclusione, fatalmente presentita nel nostro preconscio come effetto d'un fenomeno del profondo collettivo che si presenta dirompente alla nostra immaginazione, inserito nel domani e come perdita imminente d'un paradiso perduto. Infatti la prima cosa che, in ogni caso, rimane impressa nel guardare i suoi dipinti è la enorme importanza che assume la luce nei suoi quadri, dove le forme disegnate vengono in ogni caso definite dalla luce, come lo furono in passato per i fiamminghi. Poi per curioso e quasi inspiegabile controverso, i quadri di Carlo Amadori - soprattutto questi dell'ultima produzione - mi ricordano le belle maniere, l'arte di abbigliarsi per rendersi attraenti, i variopinti fiori multicolori, le diverse qualità di piante nei giardini meravigliosi, la frescura dei grandi alberi e tutta l'armonia d'un creato vivente, unito alla più umana delle partecipazioni autentiche, specialmente quella che da sempre viene espressa dalla pura poesia e normalmente ravvisabile in alcuni brevi brani poetici scritti da Saffo di Ereso, che visse fin verso la metà del VI0 secolo a.C., nella cittadina di Mitilene, contemporanea di Alceo e con lui condividendo la più grande rappresentanza della lirica monodica che, come è noto, mai nascose il suo grande amore per la natura e la casta bellezza, specialmente evidenti in quei brani che dicono: «...e portano / agli estremi confini della terra / pioggia e rugiada / per nuove fioriture / le nubi che ora veleggiano / sopra l'azzurro tremore del mare / sospinte da un turbine di vento...» e poi, proseguendo con un altro brano, Saffo è ancora più malinconica e ci lascia stupefatti per il senso d'una precisa consunzione legata al tempo, quando scrive: «...dispensa le pene / il tempo / e lacera / mutila / e guasta / anche il mare / anche la terra / anche il tronco / forte / e schietto... ^^

D'altronde come già aveva rilevato Marilena Pasquali: «...può sembrare strano, ma dopo la superbia delle avanguardie di questo nostro secolo (tutte esprimenti il dramma eh'è insito nella vita moderna) e la (inutile) speranza delle rivoluzioni, l'arte attinge oggi a un'area di rinnovato classicismo, ritrovato non tanto nella sensibile riscoperta di miti e di radici mediterranee, quanto nell'analisi dell'arte su se stessa, come se ricalcando le orme del classicismo... si ricerchi la sostituzione del mondo dell'arte e quello della vita come oggetto della imitazione poetica...», il che, almeno a nostro personale parere, è quanto ci propone Carlo Amadori con soggetti d'immagini fantastiche che con il «neoclassicismo» che le contraddistinguono, evidenziano per antagonismo e ribellione, quella misteriosa «suspence» che sempre noi ritroviamo in molte sue opere che s'innestano con il passato e ancor più, in particolare, in quelle di questi ultimi anni di produzione pittorica, cioè grosso modo a partire dal 1985, quale segno emblematico d'una misteriosa premonizione di «inspiegabile attesa», sempre calata all'interno delle sue scene narrate e dipinte con una apparente tranquillità paciosa, soprattutto per i suoi paesaggi che pur apparendo sereni, sono invece allarmanti, in quanto a ben guardarli denunciano con la staticità degli elementi naturali, figurali e compositivi, soprattutto con il livore delle luci che non si capisce mai da dove esattamente provengono, comunicando una continua inquietudine allarmante dell'anima - che è anche seducente - comunque sempre presente nello svolgersi d'ogni tempo del tempo e che compendia con la sua unicità: passato, presente e futuro. Insomma i dipinti di Carlo Amadori, a ben riflettere, sono esattamente al contrario di certi studi di scienza, quelli dei matematici in particolare, i quali presentano con le loro teorie una tale limpidezza nelle loro formule e strutture che si direbbero figlie di nessuno in particolare, in quanto rappresentano un qualcosa d'inumano; Amadori, pur essendo a sua volta lucidissimo riesce ad influenzarci con la nobiltà della sua fantasia e con la sua straordinaria umanità. Egli, come già rilevato da Roland Barthes, ha scoperto che il «mito» figurale è un sistema di comunicazione, è un metalinguaggio che può trasmettere con le sue rappresentazioni e con il modo di significare le sue forme di stile neoclassico. A tutto questo non ha posto alcun limite, cioè nessuna limitazione di periodi storici, antichi e moderni, tanto è vero che nelle sue immagini riprende a suo piacere dei «miti antichi», dei «personaggi rinascimentali» o delle «rovine», consapevole che non esistono miti eterni in quanto la sola regola della vita è la morte del mito che porta con sé momenti di grande evidenza e momenti di trascuratezza esistenziale, soggetto tuttavia a una sua consunzione lenta e continua, perché in definitiva il «mito» è una parola o una immagine scelta dalla storia e non può sorgere dalla natura delle cose in se stesse e quindi viene vitalizzato dalle circostanze e dalla nostra immaginazione. Nel mito poi si ritrova sempre quello schema tridimensionale, quando viene evocato dalle immagini della pittura, che come sistema di linguaggio si edifica: sul significato, il segno e il significante, il che lo rende oggettivo.

Perseguendo ora il percorso ideale di questa mostra, attraverso la presenza delle opere esposte, rileviamo in successione quasi cronologica, la litografia - che è anche pubblicata sulla copertina del volumetto che funge da catalogo - ritoccata a mano e che rappresenta una «Testa di donna classica» che, nelle intenzioni di Amadori, fa da pendant a quella «Testa d'uomo classico» ch'era posto nella copertina del volumetto «Carpe diem» del 1988. Segue «La costruzione delle piramidi» del 1988, una tecnica mista su cartone che parte dai primordi della costruzione di quei monumenti funerari egizi, mitici ed enigmatici al punto d'aver saputo mantenere in se stesse un qualcosa d'inquietante e misterioso, sia per le loro dimensioni, sia per i numerosi significati esoterici che gli vennero attribuiti con il passare dei secoli. «Alla scoperta d'uno spazio ideale» del 1985 è un quadro che, essendo il più vecchio in mostra, si ricollega alle sue passate tematiche e, nel contempo, è anche un po' il nostro presente che continua la ricerca di questo ambito, specialmente definito nell'opera da una macchia circolare di luce, davanti al tempietto classicheggiante d'improbabile datazione e abitabilità, il tutto circondato e immerso in una natura lussureggiante con l'invasione d'una luce fredda, quasi lunare anche se meridiana. «Sogno d'un ombra è l'uomo» del 1987, vuoi significare concettualmente la nostra condizione, cioè precaria in quanto avvertiamo che la nostra simbolica presenza umana è rappresentata dall'ombra visibile dentro al tempietto, dove sopra incombe un cielo burrascoso che grava sul nostro destino esistenziale. Capitello policleteo del 1989, è un frammento del capitello corinzio, cioè della sua espressione più pura ch'era appunto quella di Policleto (vissuto verso il 440 a.c.) maestro di Mirone. Il capitello è posto vicino a una pianta d'acanto che, come è noto, più volte servì da modello a sculture antiche, ponendo a confronto l'elemento ispiratore con l'altro elemento vegetale, posto in risalto dai posteri quale iconografia d'immagine sublime e simbolica, mentre in realtà era una pianta molto diffusa e quindi facile a trovarsi ovunque.

Se ben si osserva il «Capitello policleteo», esso rappresenta un cesto di foglie d'acanto che, in architettura, diviene la parte superiore della colonna e del pilastro sul quale poggia l'architrave o l'arco, avente funzione decorativa.

«Prima che tramonti la luna» del 1990, si vede l'immagine del Partenone con le rovine e una pianta d'acanto poste sull'Acropoli di Atene e con la curiosa presenza d'un'altra pianta totalmente inventata da Amadori con un fiore improbabile di colore rossastro. In tutto questo scenario di suprema bellezza noi non troviamo il sole ma vediamo nel chiarore del cielo la presenza d'una luna (day after) che simboleggia la notte dell'uomo e delle sue traccie. In realtà Amadori in questo dipinto ci parla di Fidia in quanto, nelle sculture del Partenone, c'erano quelle del celebre maestro greco, che fu il più grande scultore dell'antichità classica, nato in Atene e che fiorì nella metà del V° secolo a.C. e fu l'autore, tra l'altro, della famosa statua di Atena posta all'intemo del Partenone e diresse le imprese per l'abbellimento della sua città d'origine.

Amadori sfogliando nella letteratura greca ha trovato questa frase che ben riassume il senso profondo di questo suo dipinto: «Solo Fidia ha mostrato ciò che Omero aveva visto, sopra l'Acropoli, il cielo si è aperto e ne sono discesi gli Dei». «Nike che si allaccia il sandalo» del 1989, è la rappresentazione d'un frammento di statua, ritrovato nel tempietto dedicato a Nike, ch'era la dea della vittoria figlia di Fallante e di Stige; la statua era stata scolpita da un maestro Attico, cioè proveniente da quella regione della Grecia che vantò artisti che svilupparono con le loro opere, specialmente gli scultori, i fulgori dell'arte greca, contribuendo con diversi gruppi a compiere capolavori, tanto che ancora oggi non si riesce a stabilire, a meno che non sia firmata, se una determinata statua sia stata eseguita da un attico o da un ateniese. Amadori ha preso come spunto l'immagine della statua, in realtà l'ha trasformata in una sorta di figura che, di fatto, sembra apparire in un curioso contesto che potrebbe sembrare lo scenario d'una Madonna raffaellesca che ci ricorda il Rinascimento.

«Alla ricerca dell' equilibrio tra essere e tempo» del 1989, è la rappresentazione d'un lavoro di Fidia che oggi si trova al Louvre di Parigi e che rappresenta un corteo di Vestali. Amadori l'ha posta su di un muretto banale ambientandolo con la visione d'un paesaggio emiliano, che si vede dal suo studio e inserito in colline che circondano la sua casa. È questo il quadro più emblematico legato al tema generale di questa mostra secondo le intenzioni di Amadori e, le ragioni, mi sembrano evidenti nei legami del tempo stabiliti dalla sua percezione e fantasia. «L'eternità delle nostre emozioni» del 1987/88 rappresenta il convito di tré figure riprese da un gruppo del Partenone dove si nota la presenza di Venere sul grembo di sua madre Dione, insieme ad un'altra dea che non è mai stata identificata. Amadori le ha umanizzate in quanto ha restituito alla realtà dei ruderi, la ricostruzione dei volti, delle braccia, delle gambe, etc., poi le ha poste all'intemo d'un giardino improbabile, anche questa è una visione ripresa dal suo studio emiliano, dove ha fatto intervenire un pavone, che nella mitologia rappresenta il simbolo della immortalità e dell'eternità... cioè l'illusione del mito. «Essenza e fatale deterioramento dell' essere» del 1989, le tré colonne rappresentano simbolicamente l'essere che si decompone e lo stesso avviene in tutti quei frammenti a terra che si stanno lentamente deteriorando così come succede anche nella nostra vita esistenziale dove fatalmente si perviene alla morte, quindi anche gli dei diventano un passato. In mezzo ai ruderi interferisce una pianta di acanto e tutto il quadro gode d'un'aura cristallina come se nel cielo non esistesse nemmeno l'aria. Tuttavia anche qui in quest'opera è difficile individuare il sole e la presenza dell'uomo è unicamente rappresentata dalle sue opere che si stanno lentamente consumando. «La città ideale» del 1988/89, dove si nota una figura muliebre sulla sinistra del quadro che sembra osservare, stando dietro alle due quinte che sono costituite dagli alberi in primo piano, quell'edificio che si trova al centro di un dipinto famoso, d'autore ignoto, e che si trovava nello studiolo del Duca di Montefeltro nel Palazzo Ducale d'Urbino.

Questa visione Amadori la reputa un emblema in quanto il dipinto ispiratore venne per l'appunto realizzato in un momento di alte idealità espresse dall'armonia classica architettonica e dalla bellezza del creato. «Il sogno dell'architetto» del 1990/91, potrebbe anche essere il tentativo di recupero d'immagine della famosa Villa dei Papiri di Ercolano, che la leggenda ci ha tramandato come di straordinaria aulicità, con giardini meravigliosi dove potevano esserci centinaia di statue famose e che, tuttavia, ancora oggi nessuno conosce veramente essendo tuttora sepolte nel sottosuolo d'Ercolano a quaranta e più metri di profondità. Oppure la scena potrebbe anche rappresentare lo scorcio della villa di Paul Getty, il famoso museologo americano, con la visione di questa pianta d'acanto in primo piano che costituisce un invaso plastico.

In verità questo dipinto prospetta una condizione onirica e tutta la scena non è altro che la rappresentazione d'un sogno con la presenza d'un cielo burrascoso e nel contempo magico e irreale, come appunto si avvera in simili stati. «Vagare nei luoghi abitati dalle muse» del 1987/88 che nell'insieme ricorda quei paesaggi settecenteschi, dove in mezzo alle rovine c'erano delle figure tranquille che dialogano. Le due persone sono la moglie e una delle figlie d'Amadori, ch'essendo per lui le persone più care ed amate costituiscono le sue muse. «Authadeia» del 1989, che in lingua greca vuoi dire «la solidità». Una solidità evidentemente apparente in quanto rappresenta un cornicione greco antico che ha resistito migliaia di anni, che ancora si presenta abbastanza bene, ma che tuttavia è in continuo disfacimento, quindi lo sgretolamento avverrà come in tutte le cose esistenti nel creato. Ed ecco, infine, l'ultimo quadro di questa mostra che s'intitola «La luce del sole dopo il sogno» del 1989, anche qui si notano due quinte vegetali con al centro un ingresso architettonico che porta verso un labirinto, come si usava costruire nel passato, il quale mostra i simulacri di due statue, poste in una situazione di mimetismo. Tutto questo fa sempre parte della precarietà della vita e della condizione di sospensione dell'esistenza.

 

Franco Passoni 

Verona, maggio 1992.

 

(1) Dal volume di Corrado Gizzi: «Omaggio a Saffo», edito

da Electa, Milano 1991.

 

 OPERE

 

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