NEL NOME DEL MITO

1986

 

Dei circa venti artisti che ho selezionato per questo XXXVII Salon de la Jeune Peinture, i cinque qui presenti richiedono un'analisi unitaria; e non perché accomunati da una tendenza o da un sodalizio - che anzi, le loro strade hanno seguito percorsi ben differenziati per linguaggio e strategia operativa - quanto perché mi sembrano riflettere esemplarmente le variazioni su un tema che negli ultimi tempi ha prodotto una fascinazione, forse una dipendenza o un culto, fino ad instaurare una sorta di mito del mito. E se il fenomeno può ricadere in quel più vasto collettore che è la Weltanschauung postmoderna, è interessante rilevare come qui la fuga dal tempo che Lyotard consegna all'era dell'elettrone, non vada unicamente verso quella memoria collettiva che si rialza sulle pure fronti di divinità neoclassiche, cioè verso la Storia e il Museo; ma si diriga con altrettanta necessità incontro al privato e alla cronaca, a età auree vissute in prima persona, alla ricerca di favole minori e non solo di archetipi luminosi. Si può dunque parlare di diacronismo della memoria, nel senso che la coscienza di sé l'artista va a trovarla sia in quella più allargata «coscienza della carne» di cui dispone anche in absentia, che in esperienze più prossime, e non meno mitiche, purché passate attraverso l'azione mistificante del Tempo. Il quale non sarà obbligatoriamente commisurato in termini di distanza cronologica - o culturologica - com'è invalso nell'ortodossia anacronista; l'altrove è anche ieri e ora. «Il mito è una parola», ha scritto Barthes esasperando in chiave semiologica la portata evocativa del logos. E lo è anche un'immagine, tanto più se intrigata con un retroterra sentimentale o tradotta in quella «perversione della rappresentazione»che è la metafora.

Per Carlo Amadori si deve parlare di sentimento del tempo come prefigurazione di silenzio e di oblio. Il reperto archeologico mediato dalla copia accademica diventa il segnale di un processo che tende a negare le certezze della storia e della civiltà occidentale in quanto parametri estetici assoluti. Gli inerti fantasmi della classicità diventano così i simboli di una solitudine metafìsica dove ogni penetrazione appare impossibile. Designificata per abuso di mito, l'immagine si richiude sulla sua apparenza, incapace di rispondere se non come convenzione agli enigmi eccessivi dell'arte.

 

Giuliano Serafini

Parigi, Grand Palais, dicembre 1986

 

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